Dobbiamo sfatare una certa immagine che la tradizione scolastica italiana ci ha consegnato, quella di Leopardi pessimista. È' per me una definizione ingiusta. I veri pessimisti vengono tutti dopo di lui: Verga, Pirandello, eccetera. Leopardi, mentre sembra parlar male della vita e ne denuncia gli aspetti di dolore, disfacimento, corruzione, mortalità, pesca da queste considerazioni una nostalgia profonda di eterno e di infinito. La definizione per me più adeguata è "realismo".
Leopardi è attento ai desideri più profondi del cuore, ai desideri più profondi dell'uomo, a quel desiderio di felicità, di beni, di bellezza, a cui tutti siamo chiamati, vocati, destinati.
Per Leopardi il maggior segno di nobiltà e grandezza che si vede nella natura umana è la noia. La noia di Leopardi è il sentimento che nasce nell'uomo quando constata l'inadeguatezza di un oggetto a renderlo felice. Io mi rendo conto di essere desiderio quando c'è un oggetto davanti a me che si propone come bene e mi attira. Quell'oggetto mi suscita il desiderio e, invece, nel momento in cui lo stringo, è una fregatura, perché il desiderio più grande esige altro: esige l'infinito e l'eterno. È una delusione mortale. Nulla soddisfa il desiderio.
Gesù è risorto: Dovete dirmi se c'è qualcosa di più serio, di più interessante da indagare, che questa notizia: è vera o falsa? Perché, se è vera, siamo salvi. Se è vero che uno ce l'ha fatta, basta che mi attacchi a lui e ce la posso fare anch'io. Se è vera, vuol dire che nessuno di quelli che amiamo muore davvero, che non andrà verso il nulla, che la vita ha valore. Questo è il Vangelo. Quello che mi ha cambiato la vita non è il mio essere perfetto, ma sentire qualcuno che va oltre i tuoi difetti, che vede in te di più di quel che vedi tu. Non mi sono salvato perché sono diventato perfetto, ma perché ho riconosciuto di essere già salvo. Tutti ci domandiamo del senso della vita: io ho trovato per me un'ipotesi di risposta. Uno, duemila anni fa, ha detto che la morte non è la fine, che la mia vita ha un valore e che non sarà sprecata. La vita è una battaglia, il percorso è lungo, ma si può sempre uscire dall'inferno a riveder le stelle.
Con che speranze sostieni il tuo cuore? Cosa chiederai alla vita oggi? Come spenderai il tempo? L'ozio è il tempo senza significato, tempo e fatica buttati via. Perché lavorare solo per lo stipendio, per riempire la pancia? L'azione dell'uomo deve avere uno scopo. L'unica cosa che il cuore desidera davvero è la vera felicità. Oggi siamo pieni di cose da fare. C'è tanto da fare che la giornata passa travolta da questa necessità, sulle quali bisogna impegnarsi per forza, affaticare, lavorare e pensare. Così se la giornata non può essere felice, almeno è piena. Rispondere alla vita come vocazione: sei tu che lo devi fare, niente ti può sostituire.
La necessità di dare un senso alla vita: per cosa diamo la vita? A questo punto bisogna rispondere. Leopardi fotografa la vita dei giovani del suo tempo: la moda, gli abiti firmati, la danza, l'auto, la moto. Qual è la cosa più vicina al cielo, che più ci fa sentire il profumo di infinito? È l'amore. L'innamoramento, il perdersi nell'altro. Leopardi dice che neanche l'esperienza dell'amore intacca quella noia inattaccabile. Per fuggire questa anima noia si viaggia, si fanno esperienze, ma non è che, perché giri il mondo, cresca dentro. La noia la porti con te, perché è in te. La battaglia sul senso della vita è in te.
E' assurdo che per ammazzare il tempo si debba, si possa fare del male. Chi va in giro per il mondo, imbrogliare, uccidere, rubare pur di ammazzare il tempo. Ammazzare il tempo per mancanza di senso, è perché non c'è un bene grande da vivere. Una speranza di bene. Chi ha avuto la grazia di rimanere giovane e di rimanere bambino, rimane con quella attesa di infinito. La tua grandezza è vivere all'altezza del tuo desiderio. Leopardi guarda l'amico e gli augura di conservare eterna la gioventù del cuore. La poesia non è un mero passatempo intellettuale, ma una vera e propria via di accesso alla realtà, un modo di comprendere il mondo che altrimenti risulterebbe incomprensibile. Dotato di grandi doni e facoltà, posto al centro della creazione, l'uomo leva al cielo un grido disperato: ha bisogno di altro, ha bisogno di Dio.
La morte c'è. La morte, nell'esperienza dell'uomo, è la grande contraddizione che sembra bloccare la speranza e, nello stesso tempo, è la grande contraddizione che esige una speranza. Questa ineludibile verità: tutto è vanità, perché tutto muore. È come se, in uno slancio coraggiosissimo e positivo, rilanciarsi proprio la speranza. Leopardi certo ha avuto circostanze per certi versi sfavorevoli, ma queste sono state per lui l'occasione di una mossa assolutamente libera, che è andata a guardare il dramma dell'esistenza. Non fate l'errore di ritenere che Leopardi abbia detto quel che ha detto perché ha avuto una madre così, certe condizioni, certe malattie. Sapeva bene distinguere tra circostanze faticose e la sua libertà che deriva o no dal vero. Tutto attende, è un'attesa certa, serena, di un bene che deve venire. Questa è la vita: nell'infanzia e nella giovinezza, una grande attesa di bene.
Giussani diceva che la fede è una curiosità desiderosa, destata dal presentimento del vero. Leopardi non conosce il compimento di questa attesa, ma questa attesa non conosce alcuna possibilità di compimento, perché c'è la morte a contraddire, a fermare. C'è la grande contraddizione: tutto muore. Leopardi denuncia una caratteristica fondamentale del suo tempo, denuncia un modo di pensare alla vita e alla morte attraverso il tradimento, nel fenomeno della corruzione della morte.
In Leopardi, la constatazione della caducità delle cose, la constatazione della morte e la percezione che tutto sembra finire, non è il punto finale della riflessione. La Fede non nasce dai nostri meriti ma è dono di Dio. La sua Grazia ci aiuta a destarci dall'apatia e a fare spazio alle domande importanti della vita. Con la grazia di Dio, facendo spazio all'inquietudine che ci tiene desti, quando ci lasciamo interrogare, quando non ci accontentiamo della tranquillità delle nostre abitudini ma ci mettiamo in gioco nelle sfide di ogni giorno. Surrogati e sedativi per spegnere la nostra inquietudine sono molteplici: dai prodotti del consumismo alle soluzioni del piacere, all'idolatria del benessere. Tutto sembra dirci: "Non pensare troppo, lascia fare, goditi la vita". Sedare il cuore, sedare l'anima finché non ci sia più l'inquietudine: questo è il pericolo. Dio invece abita le nostre domande inquietanti. Un pensiero dominante è la consapevolezza di trovarsi di fronte a un mistero grande. Leopardi non accetta sedativi: fino all'ultimo grida la nostalgia del bene. La noia è il maggior segno di nobiltà.
Una gioia celeste è il dono di Dio agli uomini: questa aspirazione al vero, al bene, al bello, alla giustizia dovrebbe essere la stoffa, la consapevolezza di ogni atto, di ogni desiderio, di ogni bisogno. Leopardi dà alla sua epoca un giudizio durissimo: "Si chiacchiera molto, si parla poco, non si dice niente, niente di serio, di vero, di interessante per la vita: è il chiacchiericcio". La vita diventa inutile: si cerca solo ciò che è utile, ciò che serve nell'immediato, ciò che serve per essere immediatamente consumato. L'essere umano, invece, ha proprio questa caratteristica: supera l'utile e prova necessario ciò che immediatamente utile non è. Solo l'uomo conosce l'utilità dell'inutile. Dio ha stabilito nella sua Provvidenza che l'uomo avesse un cuore fatto da Lui e perciò fatto per Lui: insopprimibile esigenza di infinito, di eterno. Dio è più forte di me: dominerà, signoreggerà la mia anima, la mia persona.
Ne "Il passero solitario", Leopardi mette a confronto l'allegra e superficiale inconsapevole felicità degli uccellini che cantano con questo passero solitario che se ne sta solo, pensoso, meditabondo. "Mirare" è il verbo più contemplativo: è un atto continuo di contemplazione nei confronti della realtà. L'amarezza e la tristezza di chi sente la vita come una grande promessa e la sente tradita.
Nel "L'infinito" c'è tutto lo slancio del cuore dell'uomo, tutta l'attesa del cuore dell'uomo, tutto il bene, tutto il bello, tutto il giusto e il vero che il cuore dell'uomo desidera e per cui si sente fatto. È la più potente definizione di Dio: ciò che è essenziale all'uomo. Dio ha detto: "Mi piacerebbe che in questo bellissimo universo che ho creato ci fosse qualcuno capace di stupore, di meraviglia, di commozione. Qualcuno che dicesse: 'Ma che roba è questo ben di Dio? Per me, chi ha voluto tutto questo? Anzi, chi l'ha fatto per me?'". Dio ha fatto l'uomo per questo: perché ci fosse qualcuno nella meravigliosa realtà che aveva creato, capace di stupore e meraviglia. L'uomo viene al mondo con questo desiderio, subisce un'invincibile attrattiva. Ma qualcosa di tremendo è entrato, apparentemente a distruggere questa speranza, questa attesa, questo desiderio: la morte. E allora l'uomo che esperienza fa? Alla fine si rivela come desiderio di Dio: solo l'eterno, l'infinito potrebbero soddisfarlo. Dante conosce la risposta a questa domanda; Leopardi, no. Ma entrambi attestano la grandezza e verità della domanda, del bisogno. Noi moderni pensiamo che la domanda non sia vera. La negazione dell'uomo è la negazione di ciò che è più vero, grande, prezioso: la libertà.
Leopardi ci insegna questo: lo stupore vero, lo stupore del bambino, l'affidamento a qualcosa di più grande di noi, che ci precede, ci ha voluto, ci attende. Lo stupore che muove, trascina il pensiero, l'intelligenza e la ragione a fare le domande giuste.
Ne "Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia", Leopardi dà voce a un pastore e mette in cuore e in bocca le sue domande, la sua riflessione, la sua esperienza. È dolore la vita, è fatica fin dall'inizio, dalla nascita: il figlio comincia a piangere appena nato. Vale la pena allora mettere al mondo un figlio? L'uso della ragione che fa Leopardi è meraviglioso: egli utilizza un potentissimo "forse". Partito dalla negazione assoluta, ha introdotto un "forse". Leopardi è l'ultimo grande poeta che usa la ragione come categoria della possibilità. Questa è la domanda: "Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?". La modernità, invece, si è eretta sulla presunzione che la realtà non esista: quel che conta è il mio pensiero. Leopardi non piega la realtà al suo pensiero, ma interroga la realtà. Il suo pensiero induce lo stupore del bambino: l'affidamento a qualcosa di più grande. In Dante, l'amore che muove il sole e le altre stelle ha un nome, un volto. In Leopardi, no. Leopardi ci lascia un'eredità di domande e di possibilità, alimentando in noi il desiderio di Dio e della sua misericordia.
Chesterton disse: il pazzo non è chi ha perso la ragione, è chi ha perso tutto tranne la ragione, cioè uno il cui pensiero gira a vuoto e non fa i conti con la realtà che ha davanti. Se faccio i conti con la realtà, capisco che la virtù suprema della vita è l'obbedienza (alle leggi naturali). Non è la ragione il punto, è il nesso con la realtà. Pur di vedersi felici a modo loro, ci privano della libertà e non sanno che, così facendo, ci uccidono, disse un giovane dei genitori. Occorre vivere una grande stima per la libertà dell'altro, fidarsi. Se riconosciamo che i nostri ragazzi hanno il cuore giusto, sono davvero fatti da Dio, con quel desiderio, con quella tensione che in queste serate abbiamo cercato di capire. I nostri ragazzi non sanno niente: guardano, ma non vedono. La ricchezza di bellezza, di saggezza, di verità, di carità esercitata non la vedono più. Vedono altro, inseguono immagini a volte inesistenti e non vedono quel che c'è. Si può solo vivere una tensione al bene e al vero, una fedeltà al cuore, alla vocazione così travolgente da suscitare la vocazione dell'altro, che è la stessa. Non è una convinzione, non è un'idea, è un'esperienza.
Il cuore dell'uomo è così, sempre e ovunque. "Io ti desidero così fortemente, bellezza infinita, da qualche parte ci sei": questo è il tema del canto di Leopardi.
Le nostre inquietudini, le nostre domande, i cammini spirituali devono convergere nell'adorazione del Signore, perché è il Signore che suscita in noi il sentire, l'agire e l'operare. Lo stupore dell'adorazione lo impariamo stando davanti a Dio, non tanto per chiedere o fare qualcosa, ma solo per sostare in silenzio e abbandonarci al suo amore, per lasciarci afferrare o rigenerare dalla sua misericordia. Adoriamo Dio e non i falsi idoli.
La poesia Alla sua donna non parla di donne, parla della bellezza in sé, della bellezza infinita a cui tutti siamo destinati. La donna, cioè la bellezza, a cui tutti aspiriamo è una sola, ed è la bellezza infinita di Dio. Leopardi si rivolge a questa bellezza e le parla come a una persona, come a una misteriosa presenza di cui intuisce l'esistenza per la malinconia che genera la sua assenza, e che non è reperibile su questa terra. Quanti esseri umani hanno speso, hanno sacrificato le loro esistenze inseguendo il sogno impossibile di una bellezza terrena? Ma il risultato sono state tragedie, perché questa bellezza è un dono. Se presente, si può accogliere, ma se pretendiamo di costruirla con le nostre mani possiamo solo fare disastri. Leopardi, con una nostalgia infinita, dichiara la bellezza di averla amata sempre, di averla desiderata sempre, di averla cercata sempre. Sulla terra non c'è nulla che ti somigli. Lui capisce che cos'è la felicità: essere con te, amare te, avere te come compagna di viaggio. Questo renderebbe beato l'uomo. L'amore per te mi spingerebbe a essere migliore. Con te la vita su questa terra sarebbe come quella vita che in cielo rende gli uomini simili a Dio. Ma io (Leopardi) ho perso la speranza. Sono ormai grande, sono adulto, ho perso l'illusione della gioventù. Eppure, tu resti stringente per il mio cuore. Io non l'ho conosciuta, disse: non ne ho fatto esperienza. L'ho attesa tanto, ma devo riconoscere che a me è andata così. Ma giuro che c'è. Io amo, io amo questa bellezza infinita. Addirittura la chiama la sua donna, l'unica donna che valga la pena amare. Quel che rende nobile la vita è questa nostalgia di Dio. Alla fine, se non posso fare esperienza della bellezza infinita, spero di conservare almeno la nostalgia. Se esisti da qualche parte, ma non ti degni di venire quaggiù, di farmi compagnia, di rivestire insieme a me la carne mortale, se ti rifiuti di condividere con noi il nostro destino di mortalità, non importa. Resta dove sei, perché il mio cuore è per te, è fatto di te, è fatto per te.
Adorazione del Dio che non conosco, ma che è l'unico termine adeguato del mio pensiero, del mio desiderio, della mia attesa, del mio cuore... Non si riesce a leggere questa poesia senza sentire la nostalgia di Cristo, la voglia che Cristo venga, il desiderio che accada ciò che è già accaduto.
Cos'è che gli ha impedito di sentire la fede cristiana come risposta a questa domanda? Forse Leopardi non ha avuto un'amicizia sufficiente che lo rincuorasse fino a questo punto. Perché si può essere colti come Leopardi, si può aver studiato la Bibbia, i Vangeli e i Padri della Chiesa, ma il cristianesimo lo capisci se hai un'amicizia, un'attrazione.
In breve: Franco Nembrini sfata l’immagine scolastica di Leopardi come “pessimista”, definendolo invece un realista. Leopardi, pur denunciando il dolore e la caducità della vita, esprime una nostalgia profonda per l’infinito e l’eterno. La sua poesia evidenzia la grandezza del cuore umano, incapace di essere soddisfatto da beni terreni e sempre alla ricerca di un senso più alto.
RispondiEliminaPer Leopardi, la noia è segno di nobiltà: nasce dall’insoddisfazione di fronte all’inadeguatezza delle cose materiali a colmare il desiderio umano. Anche l’amore e il viaggio non possono dissolverla, poiché la battaglia per il senso della vita si combatte dentro di noi. Leopardi non accetta surrogati che sedano questa inquietudine e denuncia la superficialità del suo tempo, privo di riflessioni profonde.
Nel canto poetico, Leopardi celebra la nostalgia per il bello e l’infinito. Nonostante l’assenza di una risposta cristiana definitiva, egli lascia aperta una potente domanda sul senso dell’esistenza. Nembrini collega questa ricerca all’adorazione e alla speranza, suggerendo che la fede possa completare l’attesa leopardiana. La grandezza di Leopardi, dunque, sta nel mantenere viva la tensione verso l’eterno, simbolo di libertà e verità.