L'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i
viventi (Gen 3,20).
Nella cultura semitica, dare il nome significa aver colto l'identità di una persona, aver capito a quale compito è destinata nel disegno del Creatore.
Nel libro della Genesi si racconta che quando Dio presentò
all'uomo colei che doveva essere la compagna della sua vita, Adamo esultò di
gioia e, con il canto – il primo canto d'amore della storia – manifestò la
propria commozione e riconoscenza. Tutte le creature sono meravigliose, ma la
donna è il capolavoro.
E’ a questo punto che l'uomo riconosce la sua sposa e le dà il
nome: Si chiamerà Eva – in ebraico hawwah –che non è un nome proprio, significa
colei che dona vita. Eccola l'identità della donna: "vita". Tutto in
lei parla di vita, di accoglienza, di disponibilità, di servizio alla vita.
In lei la vita sboccia, germoglia e cresce e viene consegnata al
mondo.
La vita umana è la più preziosa, immensamente preziosa, perché
destinata a tornare a Dio, «il Signore, amante della vita» (Sap 11,26).
Il Signore disse ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa
data e allora Sara, tua sposa, avrà un figlio». Allora Sara rise dentro di
sé..." (Gen 18,10.12).
Sara è la prima donna sterile, amareggiata, vecchia e delusa
della Bibbia; Elisabetta sarà l'ultima. Nella loro storia è racchiusa e
simboleggiata la condizione dell'umanità intera che solo da Dio può attendersi
il dono della vita.
Si potrà credere in un Dio che annuncia che un giorno il deserto
fiorirà, che il grembo sterile partorirà, che una giovane vergine concepirà e
darà alla luce un figlio e che da una tomba uscirà la vita? C'è da sorridere. Sara
è la prima che, con il suo sorriso, solleva il dubbio che questi prodigi
possano accadere. «Ma Sara negò: "Non ho riso!", perché aveva paura;
ma il Signore disse: "Sì, hai proprio riso"» (Gen 18,15). E avrebbe
sorriso di gioia il giorno della nascita del figlio. Da qui il significato del
nome "Isacco": sorriderà.
Ovunque giunge e viene accolta, la parola del Signore fa
sorridere: prima suscita il sorriso incredulo, poi il sorriso lieto di chi, con
gioia, verifica che Dio è fedele e realizza sempre ciò che promette.
Ester, la coraggiosa.
Se dovrò perire perirò... Questo è il mio desiderio: che sia
risparmiato il mio popolo. (Est 4,16; 7,3).
Al Signore piace rovesciare le sorti: abbatte i potenti e
innalza gli umili, colma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi
(Le 1,5253). Realizza questi suoi disegni attraverso i suoi servi fedeli. In
Egitto liberò il suo popolo dalla schiavitù attraverso Mosè, in Persia lo
strumento della sua salvezza fu una donna, Ester.
Era figlia di ebrei, ma, essendo nata in terra straniera, le era
stato dato il nome di una divinità mesopotamica, Ishtar, la stella del mattino,
il pianeta Venere, simbolo della bellezza luminosa e pura, perché Ester era
bella, affascinante.
La grazia femminile è opera di Dio, ma può anche servire al
male: «Per la bellezza di una donna molti sono periti; per essa l'amore brucia
come fuoco» (Sir 9,8). Quando invece risponde ai disegni di Dio, diviene motivo
di immensa gioia ed e sorgente di vita.
Ester non la mette in gioco per assecondare passioni sregolate,
per soddisfare il proprio orgoglio, solleticare istinti, rovinare coppie, ma
per salvare il suo popolo anche a rischio di perdere la propria vita. Nel libro
di Ester intervengono molti uomini che ordiscono il male. Una donna, gestendo
per il bene la propria femminilità, rovescia le sorti del suo popolo.
Rut, la straniera.
Rut disse a Noemi: «Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo
Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16).
Era il tempo in cui in Israele si guardava con astioso sospetto
agli stranieri: costituivano un'insidia per la fede, un pericolo per la purezza
della razza. C'era chi ordinava di ripudiare la propria moglie se era
straniera.
È per contestare il gretto isolazionismo del suo popolo
–"che abita separato e non si mischia con gli altri" (Nm 23,9) – che
un arguto scrittore ebreo compone la novella di Rut, un gustoso racconto il cui
obiettivo viene svelato dall'autore solo negli ultimi versetti.
Rut è una giovane straniera cresciuta fra le montagne di Moab e
giunta a Betlemme dopo varie peripezie. Booz, un giudeo più sensibile alla
bellezza femminile che alla purezza della razza, la sposa. È a questo punto che
l'autore scopre le carte: da Rut nacque Obed e da lui lesse, il padre di Davide
(Rt 4,17)... Vi pare poco – sembra chiedere con sottile umorismo – che
nientemeno che Davide discenda da una straniera?
Nell'integralismo, nell'esasperazione dell'identità nazionale,
sono sempre in agguato l'aggressività e l'intolleranza verso gli altri. Anche
la comunità religiosa corre questo rischio: può ripiegarsi su se stessa, essere
ossessionata dalla purità, convincersi che non esiste santità al di fuori dei
suoi confini.
La figura di Rut contesta ogni forma di separatismo
integralista.
Dalilàh, la seduttrice.
Come puoi dirmi: Ti amo, mentre il tuo cuore non è con me?... E
lo addormentò sulle sue ginocchia. (Gdc 16,16.19)
Veniva da Bet-Shemesh che significa "Casa del sole" ed
era aitante, impetuoso, fulgido come il sole, bello come un dio. Anche il suo
nome — Sansone — in ebraico evoca la radiosità del sole. Eppure, malgrado la
sua straordinaria forza, conobbe il declino fisico e morale per colpa di una
donna. La giovane, affascinante Dalilàh, esperta in lusinghe, lo seppe irretire
in un'avventura amorosa fatta di
seduzione, ricatti affettivi e inganni.
Soldi e sesso sono gli ingredienti di tutte le storie di amanti.
A Dalilàh i capi del popolo hanno promesso denaro affinché metta
in atto le sue straordinarie malie erotiche. Ha accettato, solleticata — più
che dai soldi — dal sogno di tante ragazze: gustare l'ebbrezza di sedurre la
star del momento.
Adescatrici maliarde, donne fatali che, ad ogni costo, decidono
di conquistare il cuore di un uomo, non per autentico amore, ma per disporre di
lui a proprio piacimento.
La Bibbia considera perfidia questo comportamento egoistico.
Oggi invece, spesso, i mass-media lo esaltano e lo spacciano per amore.
Shulamit, l'innamorata.
O mia colomba, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché
la tua voce è soave e il tuo viso grazioso (Ct 2,14).
Fra vigne e ulivi correva, libera e felice, nella stagione degli
amori, quando sbocciano i fiori, la vite mette germogli, le mandragore spandono
profumo e fioriscono i melograni (Ct 7,13-14). Leggiadra come palma (Ct 7,8),
dolce come colomba (Ct 2,14), bruna, abbronzata dal sole sotto il quale è
rimasta a lungo lavorando nei campi (Ct 1,5), Shulamit, la giovane
contadinellcr protagonista del capolavoro fra i canti d'amore.
Sola vuole rimanere con il suo diletto che viene da lei
"saltando per i monti, balzando per le colline, come capriolo o
cerbiatto" (Ct 2,8-9). Perdutamente innamorata, non accetta interferenze nelle
sue scelte affettive, nessuno può condizionare il suo amore. Ha fratelli che si
sentono in diritto di controllare la sua vita, di custodirla. Lei vuole essere
autonoma nel gestire il proprio corpo (Ct 1,6; 8,8-10). Se teniamo presente il
contesto sociale in cui è stato composto il Cantico dei Cantici è difficile
immaginare un comportamento più sovversivo di quello assunto da Shulamit,
l'innamorata, la pastorella libera e felice. Una provocazione e uno stimolo al
cambiamento per le società in cui la donna è ancora soggetta a inaccettabili
condizionamenti.
Riflessione dei sacerdoti del Sacro Cuore di Bologna (Calendario 2010).
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