Maria, la credente.
Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio? Ma
Maria e Giuseppe non compresero le sue parole" (Lc 2,49-50).
Ci è molto vicina, ha molto in comune con noi questa donna
meravigliosa che non sempre capisce le scelte di suo figlio. Nata fra i monti
della Bassa Galilea, i genitori l'hanno chiamata Miriam, nome che andava di
moda perché era quello della favorita di Erode il grande.
Ragazza innamorata del giovane Giuseppe con il quale ha
progettato una famiglia secondo la tradizione del suo popolo, poi madre, ha
dovuto confrontare ogni giorno con difficoltà e tentazioni non dissimili dalle
nostre. I vangeli ci ricordano le sue perplessità, isuoi interrogativi, il suo
commovente cammino di fede. Come noi, come suo figlio, è stata tentata, ma in
ogni momento ha saputo dire, come Gesù (2Cor 1,19), sempre "sì" a
Dio.
Non è un'eccezione, ma una persona particolare in cui Dio ha
trovato la piena disponibilità alla realizzazione del suo piano di salvezza. Dio
non elargisce i suoi doni per suscitare in chi è favorito il piacere di
sentirsi privilegiato, ma per affidargli una missione da svolgere. Maria è
stata colmata di grazia perché noi potessimo divenire ricchi di grazia.
Elisabetta diede alla luce un figlio... Volevano chiamarlo col
nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà
Giovanni» (Lc 1,6-7).
Era sterile e avanti negli anni Elisabetta e anche Zaccaria era
vecchio. Solo Dio, nella sua benevolenza, poteva dare un futuro a questa coppia
senza speranza. C'è un messaggio del Cielo nella sterilità feconda ed
Elisabetta mostra di averlo colto: nel momento di dare il nome al figlio vuole
che lo si chiami Giovanni, dono di Dio. Ha capito che in lei si è verificato un
evento straordinario: Giovanni non è nato da forze umane, il figlio non è suo
né di Zaccaria, è di Dio.
Nessun figlio appartiene ai genitori, è solo consegnato loro in
affido. Dono prezioso che va custodito, fatto crescere e preparato per la
missione cui il Signore lo destina. Coscienti dell'arduo compito che sono
chiamati a svolgere, i genitori, grati al Signore che li ha ritenuti degni di
tanta fiducia, non si appropriano del dono ricevuto, ma sono lieti di poterlo
offrire presto in dono, di consegnarlo al mondo per la vita dei fratelli.
Elisabetta e Zaccaria avrebbero potuto trattenere con sé
quell'unico figlio, invece lo hanno lasciato presto partire. Lieti di aver
svolto il loro compito, sono rimasti di nuovo soli mentre «il fanciullo viveva
in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele» (Lc
1,80).
Maddalena, la testimone.
Venne Maria la Maddalena e annunciò ai discepoli: «Ho visto il
Signore!» (Gv 20,18).
Maria di Magdala, «nel giorno dopo il sabato, si reca al
sepolcro di buon mattino, quand'è ancor buio e vede che la pietra è stata
ribaltata dal sepolcro» (Gv 20,1). Non cerca un vivente, va a piangere un morto
e, non trovandolo, corre dai discepoli e dice loro: «Hanno portato via il
Signore e non sappiamo dove l'hanno posto» (Gv 20,2).
Di fronte al sepolcro, chi è stato solo un ammiratore di Gesù si
rassegna e, sconsolato, esclama: era un giusto, un saggio, ma purtroppo è
scomparso per sempre, di lui non è rimasto neppure il cadavere, solo il
ricordo.
La Maddalena non è un'ammiratrice, ma un'innamorata. Come la
sposa del Cantico dei Cantici che nella notte si alza, fa «il giro della città,
per le strade e per le piazze» e, disperata, chiede a chiunque incontri: «Avete
visto l'amato del mio cuore?» (Ct 3,3), Maddalena torna al sepolcro, sola. Non
può stare senza di lui, non può averlo perso per sempre (Gv 20,1118).
Piange, ma quando si sente chiamare per nome lo riconosce ed
esclama: "Rabbunì", Maestro mio. Poi corre dai fratelli e grida la
sua gioia: «Ho incontrato l'amato del mio cuore!».
Marta, l'indaffarata.
Marta, Marta! Ti affanni e ti turbi per molte cose, mentre di
una sola cosa c'è bisogno. Maria ha scelto la parte buona.. (Lc 10,41-42).
Anche Gesù aveva bisogno di confidare le sue gioie e crucci e
sentire l'affetto e l'incoraggiamento di chi condivideva le sue scelte. A
Betania c'era una coppia di sorelle che lo accoglievano sempre con gioia.
Eppure anche quando si pensa di aver accolto Cristo nella propria
casa, cioè nella propria vita, può accadere che si continui ad essere
insoddisfatti, ci si può arrabbiare, diventare litigiosi e insopportabili per i
fratelli.
Nel richiamo che Gesù rivolge a Marta viene indicata la ragione
per cui, tante volte si arriva alla fine di una giornata storditi e incapaci di
gioire serenamente delle cose belle che sono state fatte.
Non è il lavoro che allontana da Dio, ma l'affanno, la
preoccupazione, l'agitazione che non lascia il tempo neppure per respirare.
Pensiamo che fermarsi un momento per ascoltare Gesù, per
verificare cosa pensa di ciò che stiamo facendo, sia tempo sottratto agli
inderogabili impegni in favore dei fratelli. In realtà è solo timore che, nel
silenzio, possano emergere interrogativi che obblighino a rivedere certe
scelte.
Gesù non suggerisce una via di fuga agli impegni e un rifugio
nello spiritualismo, indica il modo per coltivare l'equilibrio e la serenità
interiori.
Anna, la devota.
Era molto avanzata in età. Non si allontanava mai dal tempio,
servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere e parlava del bambino a
quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme... (Lc 2,36-38).
Ci sono persone che accettano con serenità il tramonto della
vita, ma c'è anche chi, il giorno del pensionamento comincia a sentirsi
smarrito. Ci sono anziani che vorrebbero tornare giovani e altri che danno la
colpa al mondo dei loro acciacchi.
Anna, molto avanzata in età, ha saputo invecchiare bene, con
gioia, senza rimpianti. Qual è il suo segreto? Vedova a soli vent'anni, avrebbe
potuto risposarsi; non lo ha fatto. Ha scelto di rimanere fedele all'amore
della sua giovinezza; non si è lasciata coinvolgere in comportamenti equivoci
e, soprattutto, non si è rassegnata a una vita malinconica senza ideali. A
ottantaquattro anni è certa di essere
ancora utile ai fratelli, sa di poter rendere loro tanti piccoli servizi,
umili, ma preziosi.
È serena: la sua vita ha avuto un senso. Non l'ha sprecata, l'ha
trascorsa nell'intinità con Dio e amando i fratelli. Ora canta lodi al Signore
e parla di Gesù a tutti coloro che sono in cerca di una luce che guidi i loro
passi.
È questa l'eredità più preziosa che le donne anziane possono
lasciare alle nuove generazioni: la saggezza che hanno accumulato nella loro
vita, la loro fede in Cristo e la loro speranza.
Priscilla, la catechista
A Priscilla e Aquila non io solo sono grato, ma tutte le chiese
dei Gentili (Rm 16,4).
Nell'anno 50 d.C. Paolo giunge a Corinto. Cerca un alloggio e lo
trova presso due coniugi cristiani, Aquila e Priscilla che esercitano la sua
stessa professione: sono fabbricatori di tende. Si sono stabiliti in Grecia da
poco; prima abitavano in Italia, ma da là sono stati espulsi per ordine
dell'imperatore Claudio (At 18,1-5). Sono benestanti, commerciano e cambiano
spesso residenza: nel 49 sono a Roma, nel 50 a Corinto e nel 52 in Asia Minore.
A Efeso arriva un giudeo chiamato Apollo, uomo colto, versato nelle Scritture,
ma con una formazione imprecisa riguardo a Cristo.
Priscilla e Aquila lo ascoltano, poi lo prendono con sé e gli
espongono con accuratezza la via di Dio (At 18,26). Si noti il dettaglio: prima
– e non a caso – è nominata Priscilla. È chiaramente lei la prima responsabile
di questa catechesi familiare.
Passano alcuni anni e ad Efeso scoppia un tumulto contro Paolo.
L'Apostolo vorrebbe presentarsi davanti alla folla inferocita per giustificare
il suo comportamento, ma i discepoli non glielo permettono. Chi gli ha salvato
la vita? Ce lo rivela egli stesso nella lettera ai Romani: «Salutate Priscilla
e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno
rischiato la loro testa» (Rm 16,3). Coraggiosa questa coppia di apostoli della
prima ora!
Riflessione dei sacerdoti del Sacro Cuore di Bologna.
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