Quindi ognuno per sé e
Dio per tutti.
Così Guareschi conclude l’introduzione al suo Mondo Piccolo.
Siamo nella Bassa Emiliana sul finire della seconda guerra, e la società è
divisa in due: chi sta coi preti e chi con i comunisti.
Io avevo già i visto i film di Don Camillo e Peppone ed ero
incuriosito anche dal leggere le opere di Guareschi che li hanno ispirati. Con vera
gioia ho scoperto che il libro è anche meglio.
I film sono stati molto “addolciti”, non dovevano essere un
pretesto per creare conflitti, ma per unire un popolo sull’orlo della guerra
civile. I titoli di due capitoli contengono la parola “paura”, che sicuramente
nei
film non emerge. Ci sono anche sparatorie e omicidi.
Penso che siano geniali i dialoghi tra Don Camillo e il “suo”
Crocifisso.
I dialoghi tra Don Camillo e Peppone sono i dialoghi di due
che si vogliono bene (e hanno combattuto insieme in guerra) ma che si trovano
agli estremi opposti in politica... anche se alla fine sui casi di coscienza l’ideologia
passa in secondo piano.
Allego alcuni brani che mi sono piaciuti particolarmente.
Nelle grandi città la
gente si preoccupa soprattutto di vivere in modo originale e così saltano poi
fuori cose sul genere dell'esistenzialismo, che non significano un accidente,
ma danno l'illusione di vivere in modo diverso dai vecchi sistemi, Invece nei
paesi della Bassa si nasce, si vive, si ama, si odia, e si muore secondo i
soliti schemi convenzionali.
La cultura è la più
grande porcheria dell'universo perché ti amareggia, oltre la vita, anche la
morte.
Durante uno sciopero Peppone voleva fermare tutti gli
orologi del paese compreso quello del campanile, dopo che era stato pitturato
il sedere della Gisella (episodio presente anche nel film).
«Ecco» spiegò don
Camillo indicando una ruota «basta mettere questo cavicchio lì e si ferma
tutto.» «Sì, sì, deve fermarsi» esclamò Peppone che sudava. ... «Tu vuoi
fermare l'orologio perché è sulla torre e lo vedi mille volte al giorno.
Dovunque tu vada, l'orologio della torre ti guarda, come l'occhio della
sentinella dalla torretta dei campi di prigionia. E se tu volgi il capo
dall'altra parte è inutile, perché senti quello sguardo pesarti sulla nuca. E
se ti chiudi in casa e nascondi la testa sotto il cuscino, quello sguardo passa
i muri, e poi i rintocchi dell'orologio ti raggiungono e ti portano la voce del
tempo. Ti portano la voce della tua coscienza. È inutile, se hai paura di Dio
perché hai peccato, nascondere il Crocifisso che hai sul letto: Dio rimane e ti
parlerà per tutta la tua vita con la voce del tuo rimorso. È inutile Peppone
che tu fermi l'orologio della torre: il tempo non lo fermi. Il tempo continua.
Passano le ore, passano i giorni, e ogni istante è qualcosa che tu rubi».
«Ferma pure
l'orologio. Non fermerai il tempo: e le messi languiranno nei campi, le vacche
deperiranno nelle stalle, il pane di istante in istante diminuirà sulla mensa
degli uomini. La guerra è l'infamia più orrenda che esista, ma se il malvagio
tenta di invadere la tua terra e depredare le tue cose e la tua libertà, tu
devi difenderti. Scioperare vuol dire difendere dei sacrosanti diritti,
difendere il tuo pane, la tua libertà e l'avvertire dei tuoi figli. Così invece
sei tu il malvagio che porta la guerra contro il suo simile per tutelare il suo
stupido orgoglio di uomo di parte. È una guerra "di prestigio", il
tipo di guerra più empio e maledetto.»
«La giustizia...» «Esistono
delle leggi da te accettate le quali tutelano il cittadino da capo a piedi,
dentro e fuori. Non occorre che intervenga un partito per tutelare il sedere di
una Pasionaria da si rapazzo. Ferma il tuo sciopero, invece di fermare
l'orologio.»
Questo un brano in cui emerge la paura...
Ad un tratto sospirò,
e il Cristo gli parlò sommesso. «Cos'hai, don Camillo? Da qualche giorno mi
sembri affaticato. Ti senti poco bene? Che sia un po' d'influenza?» «No, Gesù»
confessò senza alzare la testa don Camillo. «È paura.» «Tu hai paura? E di che
mai?» «Non lo so: se sapessi di che cosa ho paura non avrei più paura» rispose
don Camillo. «C'è qualcosa che non va, qualcosa sospeso nell'aria, qualcosa da
cui non posso difendermi. Venti uomini che mi aggrediscono con lo schioppo in
pugno non mi fanno paura: mi seccano perché sono venti e io sono solo e senza
schioppo. Se io mi trovo in mezzo al mare e non so nuotare penso: fra un minuto
affogherò come un pulcino. E allora, mi di spiace molto, ma non provo paura.
Quando su un pericolo si può ragionare non si prova paura. La paura è per i
pericoli che si sentono ma non si conoscono. È come se camminassi a occhi
bendati su una strada sconosciuta. Brutta faccenda.»
«Non hai più fede nel
tuo Dio, don Camillo?» « L'anima è di Dio, i corpi sono della terra. La fede è
grande, ma questa è una paura fisica. La mia fede può essere immensa, ma se sto
dieci giorni senza bere, ho sete. La fede consiste nel sopportare questa sete
accettandola a cuore sereno come una prova impostaci da Dio. Gesù, io sono
pronto a sopportare mille paure come questa per amor Vostro. Però ho paura.»
Qua Peppone aiuta Don Camillo nel sistemare il presepe, ed è la
conclusione del libro.
Oramai il Bambinello
era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in
mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di
sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera. Depose
con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino
la Madonna. «Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale» annunciò con
fierezza Peppone. «Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che
si addormenti. E’ un fenomeno.»
Poi, vicino alla
Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello. «Questo è il
figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo Peppone» disse don
Camillo toccando per ultimo il somarello. «E questo è don Camillo!» esclamò
Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo. «Bah! Fra
bestie ci si comprende sempre» concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si
ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva
ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udi risuonarsi
all'orecchio le parole della poesia, che oramai sapeva a memoria. «Quando, la
sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!» si rallegrò. «Anche
quando comanderà la democrazia proletaria, le poesie bisognerà lasciarle stare.
Anzi, renderle obbligatorie!»
Il fiume scorreva
placido e lento, lì a due passi, sotto l'argine, ed era anch'esso una poesia:
una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E
per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo
all'acqua, c'eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l'acqua avrà
levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la
gente correrà a seimila chilometri l'ora su macchine a razzo superatomico e per
far cosa? Per arrivare in fondo all'anno e rimanere a bocca aperta davanti allo
stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha
ripitturato col pennellino.
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