In Il cervello che guarda il cielo, Vittorino Andreoli esplora il legame profondo tra la biologia dell'uomo e la sua tensione verso la trascendenza, proponendo l'idea che il bisogno di Dio sia inscritto nella struttura stessa del cervello umano. Non si tratta solo di un anelito spirituale, ma di una dinamica concreta, radicata nella nostra neurofisiologia: la trascendenza, infatti, non è un concetto astratto, ma una componente essenziale della natura umana.
Fin dai tempi dei greci, l'uomo ha distinto tra corpo visibile e anima invisibile. L'invisibile – che comprende la coscienza, l'anima, l'amore – è percepibile solo con facoltà che vanno oltre i sensi. Eppure, è proprio l'invisibile a conferire senso alla vita e ad accompagnare la nostra esistenza concreta. La religione, da questo punto di vista, rappresenta un legame tra natura e spirito, una risposta alle domande che la scienza non può esaudire. L'ateismo, osserva Andreoli, è un fenomeno relativamente recente e paradossale: negare un ente implica già averlo preso in considerazione.
La nostra civiltà affonda le sue radici nella cultura greco-romana e cristiana. In questo contesto, pensatori come Einstein e Freud offrono due letture opposte del divino: per Einstein Dio è un creatore impersonale, estraneo alla relazione con l'uomo; per Freud, invece, Dio è una proiezione psichica, una figura paterna necessaria a colmare il bisogno di guida. Ma al di là delle interpretazioni, resta un fatto: l'uomo è capace di immaginare ciò che non esiste, come dimostrano funzioni come la memoria – che non si localizza in un punto fisico del cervello – o l'anticipazione del futuro.
La coscienza emerge come attività cerebrale complessa, nella quale si intrecciano pensiero, affettività, immaginazione. È nella coscienza che si avverte il richiamo del sacro, inteso come ciò che sfugge alla comprensione razionale ma al tempo stesso si impone come reale. Non sorprende quindi che il cervello, con i suoi cento miliardi di neuroni, possa ospitare una "disposizione" al trascendente, una sorta di apertura biologica verso un senso più alto.
Per Andreoli, la religiosità è un'esperienza concreta: il legame tra Dio e uomo non è fantasia ma risposta reale a bisogni reali. Il sacro, in questo senso, è una percezione consapevole del mistero, espressione dei limiti umani. L'uomo, capace di desiderare e immaginare un futuro diverso, sente l'impulso a superare la propria condizione attuale. Esperienze fondamentali come la nascita, l'amore, la morte e la libertà appaiono sacre proprio perché inscrivono in sé una dimensione misteriosa.
Il cervello umano sembra fatto per cercare il senso: la sua struttura, con aree capaci di regolare il comportamento e altre più aperte all'esperienza, rende possibile lo slancio verso ciò che è oltre il visibile. I lobi frontali, sede di desideri e progettualità, permettono all'uomo di trascendere il mondo fisico. In questo senso, la trascendenza è una risposta umana al limite e al mistero, una forza che orienta verso la ricerca di un principio superiore.
La fragilità, spesso vista come debolezza, diventa invece per Andreoli un punto di forza relazionale: è nel bisogno dell'altro che si costruisce il legame, che si trova sicurezza e benessere. La paternità, intesa come relazione affettiva, si contrappone al potere, che distrugge l'amore e genera paura. L'autorità vera nasce dalla credibilità, dall'empatia, dall'interesse per l'altro: non dalla forza. L'unico modo autentico di amare è donarsi, con emozione e sentimento.
Il percorso spirituale è quindi anche un processo psicologico: vincere una mancanza ne genera un'altra, in un cammino verso un'entità perfetta, verso Dio. La conversione rappresenta un evento decisivo: un'esperienza che cambia la vita, che conferma l'esistenza di Dio attraverso il cambiamento interiore. Come dice Sant'Agostino, «il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te». L'esperienza del sacro, infatti, non è un'astrazione, ma una dimensione esistenziale che dà senso alla vita.
Dio, secondo questa visione, è amore e paternità. È colui che risponde al bisogno umano di sicurezza, relazione, fiducia, eternità. L'immagine di Dio rende possibile superare la precarietà e concepire relazioni durature, fondate sul dono, non sul calcolo. In Gesù, Dio si incarna e si dona, diventando esempio e modello per l'umanità. Andreoli mette a confronto i comandamenti dell'Antico Testamento con le beatitudini del Vangelo, preferendo queste ultime come fondamento di un umanesimo nuovo, fondato sulla misericordia e sulla speranza.
Il dolore, in questa prospettiva, non è solo sofferenza, ma fatica che orienta verso il Regno dei Cieli. La fede, come forza interiore, genera il miracolo: una trasformazione che nasce dal profondo, dalla fiducia in ciò che non si vede ma si crede. L'uomo, dotato di immaginazione, è capace di concepire l'invisibile: ed è proprio questa capacità che lo spinge ad alzare lo sguardo al cielo, a cercare un significato più alto alla propria esistenza.
La morte, che segna il limite ultimo, trova senso nella resurrezione, in una vita oltre il tempo. Immaginare l'eternità è un'attivazione della mente, una funzione dell'essere umano. La trascendenza colma ciò che manca: nel legame con Dio, l'uomo trova una gioia piena, che non si misura più in termini di libertà, ma di perfezione desiderata. In questo mondo nuovo, sentimenti e relazioni assumono significati rinnovati.
Dio non è frutto del caso, ma certezza e presenza. Egli è fine della paura, senso dell'amore, energia per costruire, non per dominare. È tempo, secondo Andreoli, di alzare gli occhi al cielo, riconoscendo che in ogni uomo è piantato il seme del bisogno di Dio, della trascendenza, del mistero. Un bisogno che ha sede nel cervello, ma che tocca tutta la persona: spirito, emozione, pensiero, relazione.
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