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lunedì 12 maggio 2025

​Cori da “La Rocca” | Cap. 6-10

Capitolo 6 – La profezia e la lotta permanente

Il Cristianesimo non ha finito la sua lotta nel mondo. Non si tratta di una battaglia confinata al passato: è un confronto perenne, che si rinnova in ogni generazione, in ogni cuore, in ogni cultura. Il Tempio deve essere continuamente riedificato, perché è continuamente minacciato, logorato, dimenticato.

Eliot, con tono profetico, rompe l'illusione moderna che la fede possa ormai considerarsi acquisita o superata. La persecuzione dei cristiani non è una pagina chiusa, ma una realtà ricorrente sotto forme sempre nuove: disprezzo, marginalizzazione, ridicolo, esclusione.

Egli denuncia l'utopia ingenua di chi sogna sistemi talmente perfetti da non aver più bisogno della bontà personale, della conversione del cuore. È la tentazione antica e moderna di sostituire la redenzione con l'ingegneria sociale, la Grazia con la tecnica, Dio con l'ideologia.

Ma il Cristianesimo è proprio l'antitesi di ogni utopia: non promette una salvezza costruita dall'uomo, bensì annuncia la presenza salvifica di Dio dentro le ferite della storia. Eliot sa che si tratta di realismo, non di pessimismo: leggere l'umano senza illusioni, con la ragione aperta alla verità del limite e del desiderio.

Per questo il poeta osa domandare: perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero accogliere le sue leggi, i suoi richiami scomodi? La risposta è paradossale: la Chiesa ricorda loro ciò che vorrebbero dimenticare – il male, la morte, il peccato, la necessità del perdono. Dove l'uomo vorrebbe essere duro, essa chiede tenerezza; dove vorrebbe essere indulgente, essa richiama alla giustizia.

L'uomo che è viene oscurato dall'uomo che pretende di essere. Ma il Figlio dell'Uomo non è stato crocifisso una volta per tutte: è sempre crocifisso nella carne dei giusti, nella sofferenza dei santi, nella testimonianza dei martiri di ogni epoca. La profezia cristiana non smette mai di svelare questa tensione: la salvezza non è una conquista dell'uomo, ma un dono di Dio che attraversa la storia e la redime dal suo interno.


Capitolo 7 – Dalla luce alla luce: la presenza decisiva

In questo canto ultimo, Eliot non espone un'idea, ma accende un'esperienza: quella che rende il Cristianesimo non solo interessante, ma decisivo per il destino dell'uomo. La Straniera, figura emblematica, non è semplicemente una presenza significativa: è la chiave per interpretare la storia, è memoria e profezia, interrogativo e risposta.

Tutto ha inizio dalla Genesi: la terra era deserta e vuota, e questa ripetizione solenne apre lo spazio del dramma umano. Il deserto non è solo luogo fisico, ma simbolo dell'assenza di significato, dello smarrimento e della sterilità. È l'immagine della condizione dell'uomo quando si allontana dalla sua origine e dal suo fine.

La concezione agostiniana affiora nitidamente: il bene è presenza dell'essere, cioè del significato, mentre il male è assenza, vuoto, desolazione. La storia dell'uomo diventa allora il tormento di chi cerca Dio, la fatica di una creatura che non può smettere di domandare, pur non sapendo sempre come o a chi rivolgersi.

C'è un'identità profonda tra luce, ragione e senso religioso. La ragione vera – non la sua caricatura razionalista – è quella che, nella sua apertura, si muove alla ricerca del significato. È questo il valore permanente delle religioni: sorgono come risposta all'urgenza di senso che abita l'uomo. Ma il Cristianesimo è qualcosa di radicalmente nuovo. Non è un sistema né un pensiero: è un fatto, un evento storico, l'Incarnazione di Dio. Un'irruzione imprevedibile che cambia la traiettoria del cammino umano.

L'impatto con Cristo – con la Passione e il sacrificio che salvano – non elimina magicamente il limite morale dell'uomo, ma illumina il cammino. Non cancella la tenebra, ma le dona un orizzonte. Gli uomini possono così procedere "dalla luce alla luce", nonostante tutto: nonostante la carne, l'egoismo, la cecità, la fragilità che sempre ritornano.

Eliot elenca le nuove idolatrie dell'uomo moderno: non più gli dèi dell'antichità, ma la Ragione intesa come razionalismo, l'Usura, la Lussuria, il Potere. La dea Ragione è la maschera di un'umanità che ha perso l'unità tra mente e cuore, tra pensiero e fede. Si è passati dal rifiuto di Dio a un'assenza totale di Dio, e questo è qualcosa di inedito nella storia.

Gli uomini oggi non adorano altri dèi, ma nessun dio. Hanno abbandonato la Chiesa e dimenticato il Dio vivente, preferendo ciò che chiamano vita, razza, dialettica – idoli moderni che promettono dominio ma generano soltanto deserto.

E allora si pone la domanda che chiude il cerchio:
 È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità, o è l'umanità che ha abbandonato la Chiesa?
 Deserto e vuoto tornano a estendersi sull'abisso.

Eppure, nel cuore di questa notte, lo Spirito si muove ancora, come all'inizio.
 E ci sono ancora uomini che si volgono verso la luce.
 Il loro cammino è lotta, ma anche promessa: dal buio della storia verso la luce del Verbo, salvati non perché migliori, ma perché raggiunti.

Capitolo 8 – Il canto dell'accusa e della memoria

Questo canto è un'accusa, ma anche una supplica.
 Un grido rivolto a un'età in cui la fede è moderata, smussata, diluita fino a svanire.
 Eliot, con voce profetica, evoca un'epoca in cui la fede era forza che muoveva i popoli, non semplice opinione privata.
 Rievoca le Crociate – in particolare la prima – non come parata di santi, ma come gesto reale e coraggioso, compiuto da uomini normali, segnati dal limite, eppure capaci di osare in nome di qualcosa di più grande di sé.

Non furono la virtù perfetta né l'assenza di peccato a muovere quei passi, ma una fede – magari fragile, magari incerta – che pure si mise in cammino.
 Eliot non idealizza: sa bene che avidità, lussuria, invidia e orgoglio erano presenti.
 E tuttavia afferma che non queste cose fecero le Crociate, ma furono esse a corroderle dall'interno.
 Il gesto restava autentico, perché originato da una chiamata che ardeva nel cuore.

Qui si leva un inno alla fede non moderata:
 una fede che osa, che accetta il rischio, che non aspetta condizioni perfette per agire.
 Eliot si richiama a Isaia, dove la condanna della corruzione del popolo e della città è feroce,
 ma più alta ancora è la speranza nel Dio che salva.

Tradizione e memoria sono per Eliot le fondamenta per vivere con coscienza il presente
 e per guardare al futuro con coraggio.
 Chi dimentica, si paralizza. Chi ricorda, può ancora rialzarsi. "O Padre, accogliamo le tue parole. Prenderemo coraggio per il futuro, ricordando il passato."

È un invito a non fuggire dalla grandezza della vocazione cristiana.
 A non accontentarsi della tiepidezza.
 L'età attuale è un tempo in cui gli uomini non depongono la croce solo perché non l'hanno mai assunta.
 Eppure, Eliot insiste: nulla è impossibile per chi crede.

Questo è il punto finale e insieme l'inizio di un'altra speranza: "Rendiamo quindi perfetta la nostra volontà. O Dio, aiutaci."

Capitolo 9 – Ironia sacra e unità dell'umano

Con tono biblico e sferzante, Eliot conclude la sua opera con una parodia amara del costume religioso: un affresco impietoso di chi frequenta la Chiesa come atto rituale, ma vive con orgoglio e vanità il resto della propria esistenza. L'ironia qui è affilata, quasi velenosa. Vengono descritti coloro che si atteggiano a derelitti e gementi nei banchi della Chiesa, mentre in pubblico camminano a testa alta, convinti della propria rettitudine.

È una stoccata diretta a chi immagina di apprendere la "gioiosa comunione dei santi" piangendo da soli, in una stanza appartata, come se la fede fosse un esercizio privato, individualistico, avulso dalla concretezza della vita e della comunità.

Contro questo spiritualismo disincarnato, Eliot rilancia la visione cristiana dell'uomo: l'anima è fatta per creare, per trasformare il caos in ordine, per generare vita e forma. L'uomo è chiamato a partecipare all'opera della creazione. È questo il senso profondo dell'arte: non decorazione, ma resistenza al deserto. Ogni gesto creativo è un atto di opposizione alla sterilità del vuoto, un'affermazione della possibilità di senso.

L'unione tra visibile e invisibile, propria della natura umana, diventa qui chiave di lettura del rapporto con Dio. Servire Dio non è solo un atto "spirituale", ma coinvolge corpo e spirito, materia e mistero. Anche il Tempio, fatto di pietra, è segno e memoria fisica dell'invisibile, luogo dove la carne e il divino si incontrano.

"Disponi il tuo cuore a tutto ciò che ti mostro," ammonisce la voce poetica.
 Ma molti, dice Eliot, vorrebbero scaricare su Dio le loro sofferenze, senza umiltà, senza abbandono. Preferiscono essere padroni del proprio dolore, piuttosto che riceverne il senso. Pensano bene di sé, e perciò non si lasciano trasformare.

Eppure, il cuore dell'uomo è chiamato ad affrettarsi alla creazione: a generare ciò che ancora non è, a costruire nella storia una traccia dell'eterno.
 L'uomo è unione di corpo e spirito, e deve quindi servire con tutto se stesso.
 Il visibile e l'invisibile si incontrano nell'uomo – e perciò devono incontrarsi nel suo tempio.
 Non bisogna rinnegare il corpo: Dio si è fatto carne, e nulla della realtà umana è estraneo alla salvezza.

Ogni creazione autentica nasce nel travaglio.
 Ogni vera opera comporta lotta, attesa, dolore.
 Ma proprio da questa tensione può nascere la luce.

La luce – la luce!
 Il ricordo visibile della luce invisibile.

E così termina la visione di Eliot: un'esortazione a vivere l'umano nella sua totalità, come spazio in cui la fede prende corpo, dove l'invisibile diventa carne e la memoria diventa presenza.

Capitolo 10 – Inno alla Luce Invisibile

Il capitolo si apre con un tentativo di lasciare un'impronta indelebile nella mente del lettore, un'immagine che trascenda la realtà quotidiana: l'immagine della luce, in tutta la sua profondità e ambiguità. Una luce indicibile, che non può essere pienamente espressa con parole umane. In questo senso, Eliot trae ispirazione dal maestro Dante, il quale, con la sua poesia, ha saputo immortalare l'esperienza del divino e della luce. Il poeta celebra la luce invisibile, che non si rende tangibile con gli strumenti umani, ma che sussiste al di là di ciò che possiamo vedere.

In un gesto quasi paradossale, Eliot non si limita a glorificare questa luce suprema, ma esprime gratitudine anche per le "luci minori" che sono dono della presenza divina nel mondo. Questa paradossalità è, in fondo, una delle caratteristiche essenziali del cristianesimo, che vede il divino rivelarsi nella fragilità, nella semplicità, nella quotidianità.

L'evento cristiano è descritto come un atto che non si comunica attraverso visioni spettacolari o illuminazioni, ma attraverso una presenza discreta, che si adatta alla limitatezza dell'uomo. È una percezione di Dio che non abbaglia ma orienta, che non distrugge ma rinnova. Come Baudelaire aveva inteso il peccato originale e il male, anche Eliot riconosce che Cristo viene per rivelare la necessità della redenzione, per illuminare le tenebre della condizione umana.

Il poeta fa poi riferimento alla felice colpa che la liturgia pasquale celebra: la consapevolezza che la salvezza è frutto di una caduta da cui nasce la possibilità di riscatto. Non è la punizione che salva, ma la venuta di Cristo, che si fa presente nella storia come un segno di speranza.

In una visione quasi escatologica, Eliot descrive la chiesa visibile come una luce che brilla su una collina in un mondo confuso e oscuro. Questo simbolo richiama la permanenza della fede cristiana, anche quando la luce sembra farsi fioca e le tenebre si allungano.

Tuttavia, il poeta avverte che il grande serpente – il male che affligge l'umanità – è sempre in agguato, sempre pronto a risvegliarsi. La misteriosità dell'iniquità è un abisso che l'occhio mortale non può penetrare: un mistero che sfida la comprensione umana, che non può essere vinto da semplici forze terrestri.

Eliot invita a distogliere lo sguardo da coloro che si lasciano affascinare dalla superficie, da chi segue le illusioni dorate del serpente. Esorta invece a prendere la spada della fede e separarsi dal male, rimanendo saldi, pur nella consapevolezza della propria fragilità.

Alla fine del capitolo, il poeta esprime la gratitudine per questa luce invisibile, troppo splendente per essere vista dai mortali, ma che in qualche modo riesce a illuminare la nostra esistenza. La luce non è data in pienezza, ma in piccole parti, abbastanza per orientare i passi. La preghiera si fa un ringraziamento umile, ma anche un atto di fede:

"O luce invisibile, noi Ti lodiamo, troppo splendente per la visione mortale.
 O luce invisibile, noi Ti adoriamo, noi Ti glorifichiamo."

Il poeta descrive l'uomo come fanciullo, rapidamente stanco e distratto, che dorme e si contenta del suo sonno, ma desidera essere riacceso, per riprendere il cammino verso la luce. In questo modo, la luce diventa simbolo non solo della divinità che si manifesta, ma anche della speranza di rinascita, della possibilità di superare la tenebra attraverso un atto di gratitudine e riconoscimento.

"Ti ringraziamo per la nostra piccola luce,
 Ti ringraziamo per averci sospinti ed edificato.
 Ti ringraziamo che la tenebra ricorda noi la luce."

Il capitolo si conclude con una doxologia, un ringraziamento finale per la grande gloria della luce, che ha toccato l'esistenza umana e che, pur nelle sue forme invisibili e parziali, è l'unico faro in un mondo che cerca, senza mai trovarlo, il senso.

 

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